È una mostra impossibile quella di Nicola Samorì a Palazzo Fava a Bologna. Impossibile non solo perché non ci sarebbe probabilmente altra occasione per poter assistere al dialogo tra i diversi celebri capolavori riprodotti dall’artista e raccolti nelle sale del palazzo bolognese, ma soprattutto perché il centro dell’esposizione è la negazione di tali opere d’arte. L’artista infatti lavora su di esse, nella quasi totalità dei casi per riduzione, con lo scopo di lacerarne la superficie occultandone il contenuto.

Nicola Samorì, Il seminatore, 2021. Foto dell’autrice.

Figlio del suo tempo, Samorì non si oppone all’idea di pittura come specchio del reale, svelandone l’inganno attraverso il suo stesso codice come è accaduto agli albori della cosiddetta “arte moderna”. L’artista, piuttosto, utilizza come tramite un tipo di pittura fortemente tradizionale, prediligendo artisti del Cinque-Seicento i cui soggetti vengono riprodotti più o meno fedelmente. Ed è a partire da questi elementi di base che l’artista elabora il suo miracolo: non trasformando l’arte nel reale, ma svelando la realtà dell’arte. Mentre aspettano di essere convertite in materia “viva”, le figure vengono così tradite dal loro stesso creatore, che svela la loro natura di simulacro fallace del reale.

Nicola Samorì, Immortale, 2018. Foto dell’autrice.

LA MATERIALITÀ
Benché l’azione di Samorì sia quindi superficiale, indirizzata alle opere nella loro stessa materialità, le figure in esse contenute non rimangono passive alle trasformazioni dell’artista. Queste, infatti, entrano a far parte di una narrazione che si svolge al di là della rappresentazione, direttamente nello spazio dello spettatore, completando così la totale rottura della quarta parete. Non ci sono più interventi divini, grandi miracoli o altrettanti castighi ad attenderle, ma l’azione profondamente umana e materiale dell’artista che colpisce loro ed il loro essere artifizio. Tagliate, scarnificate, occultate, le figure rimangono così indifese di fronte allo sguardo dello spettatore che coglie, di fronte alla sofferenza, la loro finzionalità.

Nicola Samorì, Anulante, 2018. Foto dell’autrice.

LA POTENZA DELL’ARTE
Non resta che chiedersi, quindi, cosa rimanga del dolore se ogni traduzione in immagine cela in sé un tradimento. Eppure la straordinaria potenza di questa esposizione, sembra già fornirci una risposta. Infatti è proprio tramite la sua negazione che l’arte esprime tutta la propria forza. Non conta che si parli di arte figurativa: è un fenomeno che coinvolge tutte le tipologie di manifestazioni artistiche – basti pensare soltanto alla quantità di squilibrati che si accaniscono con violenza su opere del tutto astratte.

Veduta parziale della mostra Nicola Samorì. Sfregi. Palazzo Fava, Bologna, 2021. Foto dell’autrice.

Vero è, però, che con la figurazione le intenzioni dell’autore sono più chiare, i sentimenti più evidenti. E così, per quanto Samorì agisca per mostrare la reale materialità dell’atto artistico, le sue opere sono comunque capaci di esprimere qualcosa che va al di là della loro essenza concreta.
Il contenente qui non è più subordinato alle esigenze del contenuto: entrambi con le loro caratteristiche mirano a realizzare una tipologia di narrazione diversa, che collega spazio reale e spazio rappresentato, in un continuum percettivo estremamente coinvolgente.
In copertina: Nicola Samorì, Lienzo, 2014. Foto dell’autrice.

Nicola Samorì, Lucia, 2019. Foto dell’autrice.

Nicola Samorì, Lucia, 2019, dettaglio. Foto dell’autrice.

Nicola Samorì, Ultimo sangue, 2019. Foto dell’autrice.

Nicola Samorì, Ultimo sangue, 2019, dettaglio. Foto dell’autrice.

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