Jeff Koons a Firenze. La notizia non sorprende più: chi non ha avuto modo di vedere la mostra di persona è stato senz’altro subissato di immagini delle brillanti sculture dell’artista americano esposte a Palazzo Strozzi.
La mostra infatti, che presenta 33 fra le opere più caratteristiche della produzione dell’artista, si è promessa come un successo di botteghino, cucita su misura per il grande pubblico. Un pronostico che ha trovato presto conferma nelle lunghe file che già dalle prime settimane hanno affollato il cortile del palazzo fiorentino, che da diversi anni incanta con un’attraente programmazione.

Jeff Koons, Shine, Palazzo Strozzi, Firenze. © photo Ela Bialkowska OKNOstudio. Artribune.


Nonostante la mostra presenti anche i tratti meno noti dell’artista, come la produzione pittorica che, seppur in sordina, si rivela decisamente interessante, la parte del leone spetta alle sculture di ogni forma e dimensione – riprodotte su manifesti e cartoline, nonché sulle pagine social della metà dei nostri contatti. Ma procediamo con ordine.
La chiave per interpretare la mostra è contenuta già nel titolo Shine (“brillare”): lo statement dell’esposizione, ma anche l’imperativo della produzione dell’artista che dagli anni ’70 ad oggi ha saputo vendere la versione migliore di se stesso. Ciò che però fin dalla prima sala viene chiarito dai curatori della mostra, Arturo Galansino e Joachim Pissarro, è che il termine “shine” – più propriamente “scheinen” – in tedesco significa anche “apparire”; siamo così fin da subito avvertiti che in casa Koons “non è tutto oro quel che luccica”. È una mostra sull’apparenza, o meglio, è un’arte dell’apparenza quella a cui si sta per assistere: la trasfigurazione della materia che interessa qualsiasi prodotto artistico diventa per Koons l’unico obiettivo, l’essenza di una poetica della superficie.

Jeff Koons, Rabbit, 1986, Chicago, Museum of Contemporary Art. © Jeff Koons © 2019 Christie’s Images Limited. Fondazione Palazzo Strozzi.

È per questo motivo che la mostra è un successo, per questo che ne leggiamo in ogni rivista. Perché l’arte è ciò che si vede, la sua manifestazione esteriore. Non strani quadrati tracciati sul pavimento che pretendono di essere piramidi invisibili; neppure squali contenuti in vasche di formaldeide, venduti in asta a milioni di euro. “Semplicemente” ciò che siamo abituati a vedere – palloncini modulati a forma di cane, uova di Pasqua, coniglietti e gonfiabili da spiaggia – ma in una forma più bella, smagliante. Oggetti sottratti alla banalità e resi capolavori di un’estetica kitsch, altamente attraente.
Ciò di cui forse non ci rendiamo conto è che, insieme agli oggetti ordinari, è la nostra stessa vita che attraverso gli occhi di Koons diventa interessante, al punto da essere imitata e inserita in un museo. E così, anche se non siamo abituati a frequentare mostre d’arte, riusciamo a sentirci adatti, a nostro agio. Non siamo più circondati da una moltitudine di arte che non comprendiamo e che sembra guardarci dall’alto della sua superiorità: siamo noi al centro dell’attenzione. Questo non spiega, ma forse aiuta a contestualizzare il gesto spiazzante del vandalo che ha dedicato all’artista l’inequivocabile messaggio “JEFF KOONS, marry me”; un’isteria, certo, ma anche il sintomo di un sentire condiviso che sopprime ogni barriera tra arte, pubblico e artista.

La scritta vandalica sulla facciata di Palazzo Strozzi, Firenze. © Il fatto Quotidiano.

Koons ci attira spettacolarizzando il nostro quotidiano e ci corteggia con le sue sculture, la cui superficie brillante rispecchia la nostra immagine, catturandola. Solo guardandole, non solo ne entriamo in relazione, ma iniziamo a farne parte, inglobati nella loro pelle lucida.
Ma ecco che mentre siamo intenti ad osservare noi stessi, notiamo un dettaglio, un infinitesimale granello di polvere. E non è il solo: la polvere si annida tra le pieghe delle grandi sculture esposte, svelandone la gretta materialità. Ritorna così in mente il vademecum dei curatori: è l’apparenza la vera essenza dell’arte di Jeff Koons. È un piccolo particolare, è vero, ma questo basta a demistificare l’artista e le sue lusinghe. Come il diavolo che si annida nei dettagli, la polvere rompe l’incantesimo del riflesso e della presunta profondità di queste opere, mostrandone, al contrario, tutta la superficialità; è il velo del tempo che sottrae l’arte alla sua dimensione assoluta e imperitura.

Jeff Koons, Shine, Palazzo Strozzi, Firenze. © photo Ela Bialkowska OKNOstudio. Fondazione Palazzo Strozzi.

Si entra nelle opere, sì, ma si rimane in superficie. Non come gli specchi di Michelangelo Pistoletto, che si attivano con l’ingresso dello spettatore e della sua fisica partecipazione; queste sono sculture pensate per essere guardate, usate e abbandonate, così come le immagini di consumo quotidiano. Così come i contenuti pornografici creati da Cicciolina, ex moglie di Jeff Koons, con cui l’artista ha collaborato per la realizzazione della nota serie porno-artistica Made in Heaven. Niente è come appare.
Non ci resta che augurare buona fortuna a chi si è proposto/a con caratteri cubitali sui muri di Palazzo Strozzi. Anche se, forse, possiamo immaginare come andrà a finire.

Jeff Koons, Shine, Palazzo Strozzi, Firenze. © photo Ela Bialkowska OKNOstudio. Artribune.

In copertina: Jeff Koons, Sacred Heart (Magenta/Gold) (det.), 1994-2007, Jereann and Holland Chaney. © Jeff Koons. Fondazione Palazzo Strozzi.

You may also like

Back to Top